Catechismo: quanto dura?

Parlando di catechesi o più volgarmente di catechismo, sembra che l’unica risposta che si vada cercando riguardi la domanda: «Quanto dura?».

Forse non potrebbe essere diversamente in una congiuntura come la nostra, soggiogata dalla crudele e incredibile dittatura del tempo.

La crisi che viviamo è in larga parte “crisi del tempo” e non soltanto o più semplicemente “tempo di crisi”. Non è la crisi che abita, vive e coinvolge questo nostro tempo, piuttosto è il tempo a essere andato in crisi, il tempo è divenuto critico in quanto non più governato, non più posseduto, non più organizzato.

Il tempo è divenuto critico perché pungolato dalla frenesia del fare, intimidito e quasi soggiogato dall’urlo: «Veloci». «Schnell, schnell…» è crudele eredità di un tempo, non troppo lontano, la cui eco continua a incalzare, generazione dopo generazione, uomini e donne votati a “sbrigarsi”. Essere svelti sembra essere diventata virtù necessaria in una situazione nella quale nulla ci manca se non il tempo. Non è mai abbastanza.

L’uomo di oggi non è solo un uomo a cui è sottratto il tempo a motivo della frenesia delle mille incombenze da onorare, ma piuttosto è uomo sottratto di sé in quanto ciascuno è il proprio tempo. Quando non avrò più tempo, con ciò stesso, non ci sarò più. Occupare pervasivamente il tempo significa occupare l’uomo, prenderne possesso, annientarlo. L’odierna crisi del tempo oppresso dalla frenesia del fare è crisi dell’umano, tempo nel quale l’uomo si scopre sempre meno uomo e sempre più animale frenetico, anzi ancor meno: attrezzo “usa e getta”, non fatto per durare.
«Schnell, schnell…», è tutta una corsa, è tutto di corsa. I documentari naturalistici ci hanno fatto credere che dal seme al frutto bastano pochi secondi. Quasi ci meravigliamo che nella vita non sia come in Tv. Occorrano tempi lunghi, o meglio tempi naturalmente necessari.

Non ci meraviglia che in questo frangente, anche per quanto riguarda il cammino per diventare cristiani, l’unica preoccupazione sia quella inerente alla durata. Ne sono preoccupati i genitori, i catechisti, gli stessi preti. Ed è in gran parte sulla durata che ci si accapiglia, ci si scontra, ci si avvelena la vita. Ci si illude che, trovata la soluzione all’inghippo della durata, si sia risolto ogni problema. Non basta trovare la soluzione al “quanto”, ben altri sono gli elementi da prendere in considerazione: perché, come, quando, da chi, con chi, dove, ecc. Prima di decidere quanto dura, sarebbe necessario sapere che cosa e come bisogna fare.

Il vescovo Domenico, nell’Incontro pastorale di settembre, per quanto concerne la catechesi, ci ha richiamato al primato della relazione, dell’incontro. Non sembrava interessato a dirci quanto deve durare il percorso, ma che «al cuore del percorso di iniziazione ci sia l’incontro». Vorrei invitare le famiglie, i catechisti, i parroci e quanti nella comunità credente hanno a cuore il percorso di iniziazione cristiana, a spostare, almeno per un attimo, la loro attenzione dal “quanto dura” ad altre più urgenti e opportune attenzioni.

In primo luogo al valore della relazione. La catechesi non è la trasmissione di una serie di contenuti dottrinali. Almeno non solo. È anzitutto condivisione di un’esperienza di fede che è vissuta dentro l’alveo fecondo di relazioni significative. Se così è, ci si dovrà preoccupare di essere abili tessitori di relazioni.

Anzitutto sarà necessario entrare in relazione empatica con i ragazzi. A essi bisogna far comprendere che sono oggetto di interesse. Il primo messaggio da trasmettere, con parole e atteggiamenti è: “Tu mi interessi”. Se provassimo a mettere da parte, solo per un istante, la preoccupazione del catechismo, della frequenza agli incontri, dell’apprendimento dei contenuti, dei sacramenti da conferire e a cui preparare, e mettere al centro la persona: “Tu mi interessi”, “mi interessa chi sei, cosa fai, mi interessa la tua storia, ciò che porti nel cuore”; “Mi interessa tutto quello che interessa a te”, allora credo comincerebbe a essere tutta un’altra musica. Spesso si pretende che i ragazzi si interessino a ciò che noi proponiamo loro e noi non nutriamo alcun interesse verso ciò che è oggetto di interesse da parte loro. Diceva don Bosco ai suoi primi collaboratori: «Se volete che i ragazzi amino ciò che amate voi, cominciate voi ad amare ciò che amano loro». È necessario entrare nel cuore dei ragazzi, nel loro mondo. Ciò che resterà loro degli anni di catechismo, in gran parte, sarà il tipo di relazione vissuta con il catechista. Questo decreterà la valutazione positiva o meno di questa esperienza. Lo abbiamo constatato leggendo le risposte ai questionari proposti agli adolescenti della nostra diocesi la primavera scorsa.

Altrettanto necessario sarà tessere una trama di relazioni con le famiglie. Il catechista dovrà conoscerle (conoscere le famiglie, non solo uno dei genitori) e non solo in modo formale. Intessere con loro rapporti cordiali, amichevoli, di stima e di simpatia, di comprensione e di sostegno, non è solo un modo per coinvolgerli nel percorso catechetico dei loro figli, ma uno stile che evangelizza le famiglie in quanto possono constatare che la Chiesa si interessa di loro; che stanno a cuore alla Chiesa e stanno nel cuore della Chiesa, perché stanno nel cuore di Dio. È necessario stringere un rinnovato patto educativo con le famiglie nella condivisione di valori e ideali, di metodi e di strategie finalizzate a portare a maturazione il percorso umano e cristiano dei figli che ci affidano. Se le famiglie si fidano della comunità cristiana affidandole i propri figli, è necessario che la comunità cristiana si fidi delle famiglie, accogliendole con gioia, evitando di colpevolizzarle in ogni occasione, cercando di intessere con ciascuna di esse, e non solo genericamente, una relazione profonda e un dialogo costruttivo.

Il cammino per diventare cristiani non è una faccenda privata, ma sempre un fatto comunitario. I percorsi intrapresi da catechisti liberi battitori con i “propri ragazzi”, isolati dal resto della comunità, non giungono mai a buon fine. È indispensabile che catechisti, ragazzi, famiglie entrino in relazione con la comunità cristiana nel suo insieme, come è doveroso che la comunità tutta si senta responsabile e compartecipe del cammino di iniziazione che alcuni dei suoi membri compiono. Anche qui l’abilità relazionale deve emergere in tutta la sua fecondità. Sarà necessario, di volta in volta, trovare le modalità più opportune per favorire il coinvolgimento della comunità. Essere coinvolti, per i cristiani adulti della comunità, non può limitarsi a diventare spettatori delle performance dei piccoli cristiani in erba, ma assumersi, nei modi e nei tempi più opportuni, una responsabilità educativa, una capacità di testimonianza convinta, coerente e fattiva della propria fede, gioiosa nella celebrazione liturgica, operosa nella carità.

Di questa trama di relazioni devono essere abili tessitori i parroci, i presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose non solo i catechisti. Tutti devono sentire che la relazione autentica e audace, leale ed empatica, è il canale privilegiato della trasmissione della fede.

A volte capita tra noi uomini che, per eludere i veri problemi, quelli che contano, quelli che fanno la qualità, ci rifugiamo nella sacca di problemi di secondaria importanza. Non che il “quanto dura” non sia importante, credo però sia più importante sapere “come” si riempie quel “quanto”.

Darsi tempo è importante, ma lo è anzitutto per valorizzare la qualità delle relazioni.