Catechesi: le tre vie di papa Francesco

Il 30 gennaio scorso, parlando ai partecipanti all’incontro promosso dall’Ufficio catechistico nazionale, in occasione del 60° anniversario della sua costituzione, papa Francesco con il suo stile franco e incisivo, essenziale e diretto, ha consegnato ai presenti, e di rimando a tutti i catechisti, tre parole: Kerygma, futuro, comunità.

Secondo Bergoglio la catechesi deve ruotare attorno a queste tre realtà, le deve manifestare, se ne deve lasciare avvincere.

Per far echeggiare le prole del papa anche nella nostra Chiesa locale, particolarmente nel cuore e nella mente dei nostri catechisti, provo a ripercorrere e a interpretare quanto affermato dal Santo Padre.

Cerco di perseguire l’intento mettendo sotto la lente di ingrandimento ciascuna delle tre parole in oggetto.

Cominciamo con la parola Kerygma.

Il Papa ricorda che la catechesi è, deve essere, e non può che essere, l’eco della Parola di Dio. Nella trasmissione della fede è la Parole di Dio, giunta a noi attraverso la Sacra Scrittura, il punto di riferimento ineludibile, il fondamento, la sorgente vitale. La catechesi secondo Papa Francesco, è “l’onda lunga della Parola di Dio per trasmettere nella vita la gioia del Vangelo”.

La catechesi prende per mano e accompagna i fedeli lungo tutta la storia della salvezza, fino all’incontro con il Signore Gesù. In questa ottica i catechisti sono coloro che, dopo aver incontrato Gesù nella loro vita, conducono altri a sperimentare la bellezza dell’incontro. Per far questo i catechisti devono essere esperti nelle relazioni interpersonali, si esige che siano uomini e donne di fede che sappiano accorciare le distanze, come piace dire al nostro vescovo, credenti che abbiano il gusto della condivisione, capaci di ascolto, aperti al dialogo, accoglienti e cordiali, persone solari che hanno fatto l’esperienza di una fede luminosa, gioiosa, gratuita, vitale, armoniosa come ricorda il Papa nella Evangelii gaudium 165.

La questione fondamentale oggi nella catechesi riguarda proprio la necessità, quasi l’urgenza di mettere al centro l’incontro con Gesù. Ne era consapevole la CEI quando nel 2014 scrivendo gli orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, intitolava il documento “Incontriamo Gesù”.

Ogni sforzo va fatto, affinché questo incontro sia possibile. Ogni strada va percorsa affinché questo incontro sia facilitato. Nel suo discorso papa Francesco, non senza una nota della sua caratteristica simpatia e concretezza, indica una ulteriore strada: il dialetto. «La fede va trasmessa “in dialetto”» dice il Papa. Per dialetto, non si intendono gli idiomi regionali di cui l’Italia è ricchissima, quanto piuttosto il linguaggio dei bambini, dei ragazzi, dei giovani che hanno un modo tutto loro di esprimersi, il linguaggio della gente comune, di quelli che parlano come mangiano. Si tratta del dialetto della vicinanza e della prossimità, il dialetto dell’intimità, di gesti di tenerezza e di amicizia fatto anche di sguardi, di carezze, di compagnia, a volte anche di complicità. Il dialetto è la lingua della famigliarità, la lingua che viene dal cuore e sa parlare al cuore.

La nostra catechesi spesso ha usato un linguaggio scolastico e cattedratico, fatto di “paroloni” e di concetti non sempre chiari. Si è preoccupata di trasmettere idee e dottrine spesso più filosofiche che evangeliche, piuttosto che emozioni. E’ stata più propensa a “imporre la verità”, senza fare appello alla libertà. E’ necessario invece, ricorda il Papa, annunciare a ciascuno: “Tu sei amoto/a” a prescindere, a ragione della gratuità dell’amore di Dio e non per i tuoi presunti meriti.

Ritorna qui l’annuncio tipicamente cristiano che ha per oggetto Gesù. Non una idea,quindi, ma una persona.

Questo annuncio lo chiamiamo Kerygma, una parola altisonante, sconosciuta ai più, che serve a indicare il “primo annuncio” non solo in senso temporale, ma ancor più in senso qualitativo: l’annuncio fondamentale.

Per comprendere meglio questa parola, che non è certo una parola “dialettale”, possiamo tentare di declinarla in una triplice modalità.

1. Kerygma è l’annuncio originario.

Ciò che era fin da principio: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita […] 3quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo.» (1 Gv 1,-3). E’ ciò che ha fatto scoccare la scintilla della fede; è il racconto dell’evento che ha segnato la vita di coloro che hanno incontrato il profeta di Nazareth; è la condivisione dell’amore che ha conquistato i loro cuori; è il desiderio di non voler trattenere per sé l’esperienza dell’amore misericordioso del Padre, resosi visibile nelle parole e nelle azioni di Gesù, in modo particolare nel mistero della sua pasqua.

2. Kerygma è l’annuncio originale.

Una delle cose che più colpiva i contemporanei di Gesù era il suo insegnamento nuovo, pronunciato con autorità. Le sue erano parole fresche, libere e liberanti, parole ariose che spalancavano orizzonti, parole originali. Gesù stesso era originale, contravvenendo spesso, ai cliché del suo tempo. Si pensi ad esempio al suo rapporto con le donne, al suo modo di interpretare l’osservanza del sabato, al suo rapporto disinvolto con peccatori e stranieri.

3. Kerygma è l’annuncio essenziale.

Centrato su ciò che realmente conta, di quanto basta ed è sufficiente. Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato che nella fede cattolica esiste una scala di verità e non tutte sono sullo stesso piano, alcune sono più importanti di altre, alcune sono necessarie altre accessorie. La fede cristiana è fatta di un nucleo irrinunciabile attorno al quale ci sono altre verità non strettamente indispensabili. Si pensi alla forte diatriba nella Chiesa delle origini circa il dovere di seguire la legge di Mosè anche per i cristiani provenienti dall’ellenismo. Anche in quel caso si trattava di distinguere ciò senza cui non ci si può dire cristiani e ciò che non solo non è necessario ma potrebbe essere fuorviante. La scelta è stata chiara: l’osservanza dei precetti dell’antica legge non era necessaria.

Da quanto detto ne consegue che:

1. La fede da custodire e da trasmettere, è quella “originaria”, delle origini, non quella di un improbabile passato prossimo. L’ancoraggio alla fede degli apostoli è dirimente per giudicare dell’autenticità di ciò in cui crediamo. Tante idee più o meno peregrine formatisi lungo il corso degli anni anche recenti, sono sempre da giudicare in confronto con il Kerygma, cioè con l’annuncio originario.

2. La fede di Gesù e in Gesù non può non continuare a mettere in luce la sua originalità. Nel corso dei secoli la fede cristiana ha subito l’influsso o peggio la seduzione di forme culturali e di idee che poco o nulla avevano a che fare con la fede originale di Gesù e in qualche modo l’hanno annacquata, l’hanno messa in ombra, l’hanno distorta. L’originalità della fede di Gesù è stata risucchiata dalla fede dei filosofi e disciolta in un qualunquismo teista. Dissolvendo il “proprium”, il “novum” del cristianesimo in un generico senso religioso. Se e quando la fede cristiana perde la sua originalità, per ciò stesso perde anche la sua autenticità.

3. La fede di Gesù e in Gesù, è una fede essenziale. Si nota oggi una sorta di bulimia spirituale per cui, mai sazi, si affastellano le une sulle altre,e ci si rimpinza di idee, credenze, presunte rivelazioni, dottrine, precetti etico-morali, pie pratiche, devozioni che fanno perdere agilità e credibilità alla fede. Scolpire è l’arte che i cristiani dovranno apprendere per dare futuro alla fede.
Dunque tenere accesa la luce del Kerygma significa tenersi stretta la fede originaria, originale ed essenziale, tanto essenziale che, come ricorda papa Francesco, basta una sola parola per esprimerla: Gesù Cristo!

Padre Mariano Pappalardo, direttore Ufficio diocesano Evangelizzazione e Catechesi