Ormai Gesù è decisamente diretto verso Gerusalemme. Sa bene che cosa lo aspetta nella città santa che rifiuta gli inviati di Dio e uccide i profeti. Giorni difficili lo attendono. Anche i discepoli dovranno affrontare quei giorni. Difficilmente saranno in grado di portarne il peso. Prima, però, che si trovino dinnanzi il loro maestro sfigurato, prima di sperimentare l’orrore della passione, Gesù concede loro la grazia di gettare lo sguardo sul suo volto trasfigurato. Prima di vederlo martoriato, vuole che possano contemplarlo raggiante di luce. Prima di vivere lo sgomento da cui non si può far altro che fuggire, desidera che possano vivere un istante di bellezza che si vorrebbe non finisse mai.
È un assaggio di risurrezione, è la possibilità di gettare lo sguardo oltre, è far intuire che la croce non è il capolinea di fine corsa. Il cammino prosegue, la morte è solo una tappa, non è l’approdo. Gesù vuol far sperimentare ai suoi che la passione, la morte, la tomba sono realtà transitive, non de-finiscono Gesù e neppure l’esperienza cristiana, sono un passaggio, un varco.
La tradizione ci ha trasmesso una espressione “per crucem ad lucem”, per indicare che solo attraverso la croce si giunge alla luce. Questa motto proverbiale ha educato generazioni e generazioni di credenti.
Sembra invece che, così come è organizzato il racconto evangelico, sarebbe più corrispondente al vero invertire i termini dell’antico adagio.
La precedenza anche temporale della trasfigurazione rispetto alla passione, ci obbliga a dire non “per crucem ad lucem”, quanto piuttosto “per lucem ad crucem”.
Gesù desidera riempire gli occhi dei suoi discepoli di luce perché possano attraversare incolumi le tenebre; desidera riempiere il loro cuore di entusiasmo perché possano sopportare il fallimento; desidera far risuonare nelle loro orecchie la Parola del Padre perché possano sostenerne l’assordante silenzio; desidera avvolgerli con l’ombra dello Spirito, perché possano non scandalizzarsi della debolezza della carne. Desidera, insomma, far toccare loro con mano, la gloria perché l’ignominia non possa cantare vittoria.
È la luce che deve condurre alla croce, perché solo in questo modo la croce perderà la sua virulenza. Gli occhi illuminati sapranno vedere la croce sotto un’altra luce; il cuore colmo del ricordo del Tabor renderà meno traumatico il Calvario.
Deve essere così per tutti noi. Il Signore ci conceda di poterlo anzitutto contemplare nella luce radiosa del Tabor per seguirlo anche nell’oscurità della passione. Ci conceda il dono di scoprire in noi una sorgente di acqua che zampilla fresca e copiosa, per poter attraversare il deserto. Ci colmi di gioia spirituale perché niente e nessuno abbia la forza di soffocare la speranza. E la speranza non delude. Se custodiamo la luce, nessuna tenebra avrà mai la meglio. Se custodiamo l’entusiasmo il fallimento sarà meno duro. Il sole del Tabor ci farà sopportare anche il più rigido inverso.
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