In groppa ad un puledro, Gesù prende la via che da Betfage declina verso Gerusalemme.
È come se desse un segnale.
Un’immagine antica di secoli prende forma sotto gli occhi della folla: il Re, il Messia, umile e mite va incontro alla figlia di Sion. A suo passaggio la folla getta per terra i propri mantelli, agita al vento fronde tagliate dagli alberi, in segno di festa.
Si dono inni canti, grida di giubilo. Ad ogni passo la folla si ingrossa e sempre più chiare si odono voci acclamanti. “Osanna… Osanna… Osanna”.
È un grido che lacera i cieli. È preghiera e bestemmia nello stesso tempo. È speranza festante e rabbiosa.
La sua eco dalla campagna percorre i vicoli della citta fino a bussare alle porte del Tempio, e dai suoi cortili giunge a violare il Santo dei Santi, penetra nella camera oscura che ingoia ogni preghiera.
“Osanna”, grida la gente: “Salvaci Signore”, “snuda il tuo santo braccio e vieni in nostro soccorso”; “Mostra la tua grandezza in mezzo a noi e in faccia a tutti i popoli”. Non stare a guardare o Dio di Israele.
“Osanna” è un inno antico di secoli. E’ un grido scagliato contro il cielo ad ogni giro di macina, ogni volta che come un grappolo d’uva il seme di Abramo viene pigiato nel tino. È lamento che sale all’orecchio di Dio da un popolo oppresso. È litania ostinata di pellegrini smarriti per i deserti della vita. È mormorio sommesso di chi non ha neppure più un fil di voce per protestare la propria afflizione. “Salvaci o Dio”. Altro non ci resta, se neppure tu rispondi siamo davvero perduti.
Che questo grido ci appartenga, oggi lo sentiamo con certezza. È supplica che brucia le nostre labbra e non sappiamo se mai un Dio raccoglierà questo anelito.
Le tante speranze deluse hanno prosciugato persino i nostri occhi. Non ci sono più lacrime, evaporate assieme alle speranze andate in fumo.
Eppure sappiamo per certo che se ricacciassimo in gola l’Osanna che dentro protesta, il grido che invoca salvezza, è come se tradissimo l’ultimo nostro anelito di vita.
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